Giacomo Leopardi, le poesie più belle e famose
L’infinito (poesia scritta a Recanati tra il 1818 e il 1819)
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.
* * * *
Il sabato del villaggio (poesia scritta a Recanati nel 1829)
La donzelletta vien dalla campagna,
in sul calar del sole,
col suo fascio dell’erba, e reca in mano
un mazzolin di rose e di viole,
onde, siccome suole,
ornare ella si appresta
dimani, al dí di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro lá dove si perde il giorno;
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dí della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch’ebbe compagni dell’etá piú bella.
Giá tutta l’aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre
giú da’ colli e da’ tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dá segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,
e qua e lá saltando,
fanno un lieto romore:
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dí del suo riposo.
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l’altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s’affretta, e s’adopra
di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.
Questo di sette è il piú gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l’ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier fará ritorno.
Garzoncello scherzoso,
cotesta etá fiorita
è come un giorno d’allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
ch’anco tardi a venir non ti sia grave.
* * * *
A Silvia (poesia scritta nel 1828)
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltá splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventú salivi?
Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
cosí menare il giorno.
Io, gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
Tu, pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dí festivi
ragionavan d’amore.
Anche pería fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negâro i fati
la giovanezza. Ahi, come,
come passata sei,
cara compagna dell’etá mia nova,
mia lacrimata speme!
questo è quel mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte dell’umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.
* * * *
A se stesso (poesia scritta nel 1833 a Firenze)
Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perí l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perí. Ben sento,
in noi di cari inganni,
non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanitá del tutto.
* * * *
La Ginestra
Qui su l’arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null’altro allegra arbor nè fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de’ mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell’impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s’annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d’armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de’ potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l’altero monte
Dall’ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d’esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
E’ il gener nostro in cura
All’amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell’uman seme,
Cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell’umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E proceder il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch’a ludibrio talora
T’abbian fra se. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch’io sappia che obblio
Preme chi troppo all’età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell’aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell’alma generoso ed alto,
Non chiama se nè stima
Ricco d’or nè gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma se di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest’orbe, promettendo in terra
A popoli che un’onda
Di mar commosso, un fiato
D’aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s’ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra se nel soffrir, nè gli odii e l’ire
Fraterne, ancor più gravi
D’ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l’uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L’umana compagnia,
Tutti fra se confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell’uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così, qual fora in campo
Cinto d’oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl’inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell’orror che primo
Contra l’empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l’onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch’ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e sulla mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto Seren brillar il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch’a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L’uomo non pur, ma questo
Globo ove l’uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz’alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell’uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell’universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz’altra forza atterra,
D’un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l’opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l’assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d’alto piombando,
Dall’utero tonante
Scagliata al ciel, profondo
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli,
O pel montano fianco
Furiosa tra l’erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d’infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l’estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L’arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell’uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell’altra è la strage,
Non avvien ciò d’altronde
Fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall’ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell’ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall’inesausto grembo
Sull’arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l’acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontano l’usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l’antica obblivion l’estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all’aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Ch’alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell’orror della secreta notte
Per li vacui teatri, per li templi
Deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per voti palagi atra s’aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l’ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell’uomo ignara e dell’etadi
Ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino,
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l’uom d’eternità s’arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l’avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Nè sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell’uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
Parafrasi de La ginestra
Qui, sulle pendici aride del temibile Vesuvio, che porta sterminio
che nessun altro albero o fiore può allietare con il suo aspetto,
spargi intorno i tuoi cespugli solitari, profumata ginestra,
e non ti accontenti di vivere in luoghi desertici.
Ti ho visto abbellire coi tuoi steli anche le campagna solitarie
attorno alla città che un tempo era signora degli uomini (riferimento a Roma)
e che, col loro aspetto grave e taciturno, paiono offrire ai viaggiatori
la testimonianza e il ricordo della potenza perduta.
Ora ti vedo su questo suolo, amante di posti tristi e abbandonati da tutti,
sempre compagna di destini sventurati.
Questi campi, coperti di ceneri sterili e di lava pietrificata
che risuona sotto i passi dei viandanti, nei quali il serpente fa il nido
e si contorce al sole e il coniglio torna alla sua tana scavata nella lava,
furono villaggi vitali e terreni coltivati, biondeggianti di spighe di grano,
risonanti del muggito dei buoi;
questi campi furono palazzi e giardini, gradita sede del riposo dei potenti;
furono anche città famose (come Ercolano e Pompei) che, coi loro abitanti,
il monte superbo (Vesuvio) schiacciò con i suoi torrenti di lava,
scagliando fulmini dal suo infuocato cratere.
Ora tutti i luoghi circostanti sono avvolti da un’unica rovina
dove tu hai sede, fiore gentile, e, provando quasi compassione
per i mali altrui, fai salire nel cielo un profumo dolcissimo che consola il deserto.
Che venga in questi luoghi chi ha l’abitudine di celebrare la nostra condizione di uomini
e veda quanto è caro il genere umano
alla natura che tanto ci ama.
E potrà stimare in maniera adeguata la potenza dell’umana specie,
che la crudele Madre natura, nei momenti in cui è meno temuta,
con un movimenti leggero distrugge in parte in un istante,
e con movimenti un po’ meno leggeri può,
in modo altrettanto improvviso, annientare del tutto.
In questi luoghi sono illustrati la magnifica sorte
e il progresso continuo del genere umano.
Guardati e rispecchiati qui, alle desolate pendici del vulcano,
età superba e sciocca, che hai abbandonato la via della rinascita
del pensiero, fino ad allora seguita, e torni indietro, sui tuoi passi,
vantandoti del fatto di farlo, e chiami ciò andare avanti.
Tutti gli ingegni, di cui il crudele loro destino ti ha reso padre,
non smettono di amare il tuo essere infantile, benchè talvolta,
tra sè e sè, ti prendono in giro.
Non sarò sicuramente io a morire, macchiato di questa vergogna;
piuttosto, esprimerò nel modo più chiaro possibile il disprezzo per te,
chiuso nel mio cuore: benché, come so bene, l’oblio nasconde
tutti coloro che sono troppo dispiaciuti ai loro contemporanei.
Fin da adesso mi faccio beffe di questo danno (l’oblio da parte dei posteri),
danno che condivido con te.
Sogni la libertà, e allo stesso tempo
vuoi rendere di nuovo il pensiero schiavo,
grazie al quale solo noi uomini ci risolleviamo in parte
dalla barbarie del Medioevo progredendo nella civiltà,
che è la sola a guidare il destino dei popoli verso il miglioramento.
Per questo la verità del destino crudele e dell’infima posizione
che la natura ha a noi assegnato ti fu sgradita.
Questa fu la ragione per cui voltasti vilmente le spalle alla luce della ragione,
che lo tese chiaro; e tu, che scappi dalla ragione,
definisci vigliacco chi la segue, e magnanimo
solo colui che innalza sopra le stelle la condizione mortale,
prendendosi gioco di sé, da folle, o degli altri, da astuto.
Un uomo povero e malato, che sia d’animo coraggioso e nobile,
non definisce sé stesso nè ricco nè robusto, e,
in mezzo alle altre persone, non si mette in mostra ridicolmente
dicendo di avere una vita splendida e di essere in salute,
ma si mostra senza vergogna e si palesa
privo di forza e di ricchezza, giudicando la sua realtà
e tenendo conto di ciò che è vero.
Io sicuramente non reputo nobile colui che,
nato per morire e cresciuto in mezzo al dolore,
afferma: «io sono stato creato per essere felice»,
e così riempie i suoi scritti di rivoltante orgoglio,
promettendo destini sublimi e forme ignote di felicità su questa Terra,
che tutto l’universo ignora (destini e forme ignote di felicità),
non solo questo globo a popoli che un maremoto,
un soffio di aria corrotta (che porta epidemie)
o un crollo del sottosuolo (terremoto) distrugge,
al punto tale che ne rimane appena il ricordo.
Nobile è l’animo di chi osa alzare gli occhi umani contro il destino di tutti e,
con parole sincere e non omettendo nessuna parte della verità,
dichiara apertamente il male che ci spetta per nostro destino,
e la nostra umile e misera condizione;
nobile è l’animo di chi, nella sofferenza, si mostra forte e grande
non aggiungendo ai suoi mali odio e rabbia degli altri fratelli,
ancor più dolorosi di ogni altro male,
accusando gli altri uomini delle sue sofferenze,
ma che dà la colpa a colei che è la reale colpevole (la natura),
la madre naturale degli uomini, ma, per i suoi sentimenti
matrigna.
Chiama nemica la natura; e pensando che la società umana
si sia creata e organizzata sin dall’inizio contro la natura,
come è verità,
considera tutti gli uomini legati da un patto di alleanza
e abbraccia tutti con sincero amore,
offendo ed aspettandosi un aiuto efficace e immediato
nei pericoli alterni e nelle angosce della guerra comune (uomini contro natura).
E giudica molto insensato armarsi per offendere gli altri,
e tendere loro tranelli, e ostacolare i vicini,
quanto lo sarebbe in un campo assediato dai nemici,
mentre infuriano gli assalti e dimenticando i nemici,
iniziare a combattere aspramente con gli amici,
seminando panico e agitando la spada tra i propri guerrieri.
Quando, come già furono, saranno noti a tutti questi pensieri
e quell’orrore che per primo strinse gli uomini nella catena sociale
contro l’empia natura,
saranno in parte rinnovati dalla conoscenza della verità
i rapporti civili retti e onesti,
e la giustizia e la pietà avranno a quel punto ben altro fondamento
che favole piene di superbia, fondata sulle quali la lealtà del popolo
sta in piedi come può farlo ciò che si basa su un errore.
Mi fermo spesso a meditare la notte su queste pendici, che,
dopo averle devastate, l’onda lavica indurita riveste di nero,
increspata come le onde del mare;
e, da questo desolato terreno vedo,
nell’azzurro del cielo limpidissimo,
risplendere dall’alto le stelle, che il mare riflette,
e tutt’intorno l’universo che brilla di luci sparse
negli spazi sereni del cielo.
E dopo aver fissato i miei occhi su quelle stelle,
che sembrano solo un punto e invece sono immense,
tanto che terra e mare sono in realtà un punto rispetto ad esse;
quelle stelle, a cui l’uomo è completamente sconosciuto, e non solo,
ma questo pianeta in cui l’uomo non è niente;
e quando osservo quegli agglomerati di stelle,
infinitamente più lontani, che a noi uomini sembrano nebbia,
e alle quali non solo l’uomo e la terra,
ma anche le nostre stelle insieme al sole,
tutte insieme, infinite di numero e di grandezza,
o sono sconosciute,
oppure appaiono come quelle nebulose appaiono alla terra,
solo un punto di fioca luce;
che cosa sembri, o umana specie, alla mia riflessione?
E ricordando la tua condizione qua sulla terra,
condizione che è testimoniata dal suolo che calpesto;
e poi, dall’altro lato, ricordando che credi di essere stata scelta
come dominatrice e scopo finale di tutti l’universo,
e quante volte ti compiacesti di fantasticare
che, per amor tuo, gli dèi creatori dell’universo
scendessero in questo granello oscuro di sabbia
chiamato terra, e si intrattenessero spesso
con quelli della tua specie;
e ricordando che, col rinnovarsi di quelle superstizioni
che già furono derise (durante l’Illuminismo),
disprezza persino l’età presente i saggi,
che pare superare tutte in civiltà e sapere,
a questo punto quale pensiero o quale sentimento
mi invadono il cuore su di te?
Non so cosa prevale, se il riso o la pietà.
Come, cadendo da un albero, un frutto piccolo
che la maturazione, senza alcun altro intervento,
fa cadere di proposito là (sul formicaio) nel tardo autunno,
schiaccia, devasta e ricopre in un momento solo
le abitazioni care di un popolo di formiche,
scavate nel terreno molle con gran fatica,
e tutte le ricchezze e le costruzioni che nel corso dell’estate
gli insetti laboriosi e previdenti, avevano radunato facendo a gara,
con sforzi prolungati;
e così, precipitando dall’alto, lanciata dalla cavità tonante del vulcano
in direzione della sommità del cielo,
una rovinosa notte di ceneri, di sassi e pomici,
mescolata con roventi ruscelli di lava,
o un’immensa piena di massi liquefatti,
di sabbia infuocata e di metalli,
che rabbiosamente scenda lungo il fianco erboso del monte,
ridusse in poltiglia, e sgretolò, e ricopri in qualche momento
le città che il mare bagnava sulla costa:
per cui ora su quelle rovine pascolano le capre
mentre nuove città sorgono sopra,
città che poggiano su quelle sepolte come uno sgabello,
e la montagna aspra sembra calpestare alle sue pendici
le mura antiche abbattute delle città antiche.
La natura non si cura e non fa conto della specie umana
più di quanto non faccia con le formiche;
e, anche se la distruzione di massa è più rara nella specie umana che non nell’altra,
questo accade solo perché le generazioni umane sono meno numerose.
Sono passati ben milleottocento anni,
dopo che scomparvero,
dalla forza del fuoco schiacciate, le città popolose,
e ancora, occupandosi dei vigneti che il terreno arido
fa crescere difficilmente, il contadino solleva lo sguardo,
ancor timoroso verso la vetta del vulcano, che porta morte,
la quale non è mai diventata più tranquilla,
e ancora si erge e minaccia spaventosa distruzione a lui,
ai suoi cari e a tutti i loro miseri averi.
E il poverino spesso, sul tetto del suo rustico alloggio,
coricato all’aria aperta tutta la notte senza poter dormire,
e balzando più volte in piedi,
segue coi suoi occhi il tanto temuto flutto di lava,
che dal ventre si riversa instancabile sui fianchi rabbiosi del vulcano
e alla cui luce si illuminano
la marina di Capri, il porto di Napoli e il quartiere Mergellina.
E se vede il flutto avvicinarsi,
o se per caso sente sul fondo del pozzo di casa l’acqua che ribolle,
sveglia rapidamente i figli, sveglia la moglie,
e scappando via con quel che dei loro averi possono
portare via alla lava, vede da lontano quella che da sempre
era stata la sua casa
e quel campicello che fu per lui il solo riparo dalla fame
divenir presa dell’onda di lava incandescente,
che arriva stridendo e si stende inesorabile sopra essi (casa e campo del contadino).
Dopo il lungo oblio, torna alla luce la morta Pompei,
non diversa da uno scheletro sepolto,
che pietà o avidità riportano da sottoterra all’aria aperta;
e dal foro (l’antica piazza di Pompei) oggi deserto,
il viaggiatore contempla in lontananza,
dritto tra le file mozze di colonne,
il vulcano e la sua cima fumante,
che minaccia ancora le rovine sparse.
E nell’orrore della notte solitaria, nel bel mezzo dei teatri vuoti,
in mezzo a templi mutilati e case in rovina,
dove i pipistrelli nascondono i loro cuccioli,
come una luce sinistra che si aggiri lugubre per vuoti palazzi,
corre il bagliore della lava funerea,
che manda lontano, attraverso le ombre, bagliori rossi,
e colora tutti i luoghi circostanti.
E così, ignara dell’uomo e delle epoche da lui definite antiche,
e delle generazioni che si susseguono,
la natura rimane immobile, sempre giovane,
anzi procede lungo un così lungo cammino,
che sembra ferma.
Nel mentre, gli imperi crollano, i popoli e le lingue si avvicendano,
e scompaiono uno dopo l’altro: la natura, di questo,
nemmeno se ne accorge,
e l’uomo si vanta in modo indebito di essere eterno.
E tu, flessibile ginestra,
che abbellisci coi tuoi profumati cespugli questi aridi campi,
anche ti presto cadrai davanti alla forza della lava,
che scorre sottoterra, la quale,
tornando sul luogo a lei già noto (per le precedenti eruzioni),
stenderà nuovamente il suo manto distruttore sui tuoi fragili cespugli.
E piegherai, senza alcuna resistenza, il tuo innocente capo
sotto quel peso distruttore;
ma quel capo, fino ad allora non lo avevi piegato invano,
in un vigliacco gesto di supplica davanti all’oppressore che sta per arrivare;
ma non lo avevi innalzato al cielo, con orgoglio dissennato,
nè lo avevi alzato sul deserto,
dove sei nata e hai vissuto non per tua scelta ma solo per caso;
ma più saggia, ma tanto meno debole dell’uomo
in quanto non hai creduto che la tua fragile specie
sia stata fatta immortale dal destino o da se stessa.